Definire Roberto Baggio come calciatore e come uomo è impresa complicata, ma ci si può provare affermando banalmente che uno cosi nasce una volta ogni 100 anni. 
 

Questa frase così scontata non ci regala certo grandi scoperte dal punto di vista tecnico, visto che Baggio è stato uno dei più grandi calciatori italiani di tutti i tempi ( se non il più grande) ma ci ricorda quanto Baggio sia stato capace di unire un paese storicamente diviso come l’Italia, come mai nessuno prima. Il Divin Codino è stato di tutti, ha onorato tutte le maglie indossate in carriera: Vicenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia; oltre ovviamente a quella della Nazionale, divisa prediletta da Baggio per entrare nel cuore di tutti gli italiani. È stato capace di unire sotto la sua bandiera tifosi di squadre storicamente nemiche, e di farlo con una serietà e al contempo con una leggerezza fuori dal comune. Veder giocare Baggio era un’esperienza mistica, cosi come è stata la sua carriera, un campione mai abbandonato dal popolo tutto, eppure spesso vittima di gelosie e soprusi tattici da parte di chi aveva l’onore di allenarlo. Gli anni 90 in Italia vedevano si fior fior di campioni nel nostro campionato, ma anche una certa ossessione tattica verso il 4-4-2 di sacchiana matrice. Così, la miglior epoca del nostro calcio, diventava complicata per i trequartisti, per i numeri dieci difficilmente collocabili in uno scacchiere cosi organizzato e definito. Sacchi, Ulivieri, Lippi, ma anche Trapattoni che non lo portò ai Mondiali del 2002, sono solo alcuni degli allenatori con cui il Roby nazionale ebbe frizioni.

Lippi appunto. Questo capitolo della storia nerazzura, oltre che personale di Baggio si sviluppa nella stagione 1999/2000, la seconda e ahinoi ultima del Divin Codino con addosso i colori della squadra per cui faceva il tifo da bambino. Il rapporto con il tecnico viareggino non decolla anzi, Baggio gioca solo se gli altri sono infortunati. Lippi ha portato lo scontro su un livello diverso, di principio. Dá di matto quando in allenamento i compagni applaudono una giocata del Pallone d’oro ’93 :”Cosa applaudite, muovetevi!  È solo un allenamento”. Quando ha bisogno però, non si fa troppe remore nell’affidarsi a lui. Il 23 gennaio 2000 all’intervallo l’Inter sta perdendo 1-0 a Verona. In attacco giocano il giovanissimo Mutu e Recoba, ma con Vieri, Ronaldo e Zamorano infortunati, la mossa di Lippi per cercare di ribaltare la partita nel secondo tempo è obbligata: dentro Baggio. Il risultato finale dirà Verona  - Inter 1-2, assist e gol del 10. 

La stagione del campione di Caldogno continua tra una panchina e l’altra fino a quando non si torna al Bentegodi di Verona. Sono passati esattamente 4 mesi da quel Verona – Inter di campionato. Siamo al 23 maggio e l’Inter si gioca la stagione nello spareggio Champions contro il Parma. L’avversario, è di prim’ordine. In quel Parma militano ancora campioni del calibro di Buffon, Thuram, Cannavaro e Crespo; e la panchina di Lippi è appesa a un….Codino. Se l’Inter non va in Champions il tecnico toscano salta e Baggio ha buonissime probabilità di rimanere a Milano. Se si vince, Lippi resta e Baggio deve cercarsi un’altra squadra. Per molti la tentazione di sabotare un allenatore con cui non si è, per usare un eufemismo, legato, sarebbe un richiamo troppo forte. Ma il Codino a cui è appesa la sua panchina è Divino, e Lippi probabilmente in cuor suo lo sa.

Baggio dá spettacolo. Realizza una doppietta da fenomeno mandando l’Inter ai preliminari di Champions League e salvando Lippi, che ringrazierà, ma non restituirà il favore, ottenendone la cessione preferendo Hakan Sukur.

In quell’estate del 2000 Baggio se ne va. Ad aspettarlo a Brescia c’è Carletto Mazzone, con cui il campione veneto disputerà le ultime quattro stagioni della carriera, incantando con gol e giocate per palati fini. Il non averlo visto chiudere la carriera in nerazzurro è uno dei  maggiori rammarichi ed errori dell’intera gestione Moratti, vedendo soprattutto come andò a finire tra l’Inter e Lippi.  

Nel giorno dei suoi 55 anni è giusto ricordare quei momenti di quando se ne andò in silenzio, senza sfoghi e rancori e senza un ringraziamento da parte di nessuno; perché pur non valendo scudetti e palloni d’oro fanno capire profondamente chi sia stato Baggio, quanto grande sia Baggio. Un artista e prima ancora una bella persona.


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